Vite parallele
Vite parallele
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¶Mi farò strada tra cento miliardi di stelle la mia anima le attraverserà e su una di esse vivrà eterna.
¶Vi sono dicono cento miliardi di galassie tocco l’infinito con le mani aggiungo stella a stella sbucherò da qualche parte, sono sicuro, vivremo per l’eternità.
¶Ma già qui vivo vite parallele ciascuna con un centro, con un’avventura e qualcuno che mi scalda il cuore.
¶Ciascuna mi assicura addormentato o stanco braccia che mi stringono.
¶Credo nella reincarnazione in quel lungo percorso che fa vivere vite in quantità ma temo sempre l’oblio la dimenticanza.
¶Giriamo sospesi nel vuoto intorno all’invisibile, ci sarà pure un Motore immobile.
¶E già qui vivo vite parallele ciascuna con un centro, una speranza la tenerezza di qualcuno.
¶Tu pretendi esclusività di sentimenti non me ne volere perché sono curioso, bugiardo e infedele.
¶Qui vivo vite parallele ciascuna con un centro, con un’avventura e qualcuno che mi scalda il cuore.
Questa canzone, sinteticamente e in maniera apodittica, descrive una psicomachia, una lotta interiore tra una parte di noi che aspira alla quiete infinita e una parte, umana, dispersa nella pluralità delle vite e dei desideri. Naturalmente questa lettura s’impone oltre, e al di là del primo livello che è quello di un dialogo tra amanti e si presenta, invece, come un dialogo tra un essere umano e un essere superiore che potrebbe essere Dio o una parte superiore dell’anima stessa.
Vorrei, per confermare questa linea interpretativa, iniziare questo commento con il ricordare un’altra canzone di Battiato e Sgalambro:
Ho attraversato la vita inferiore / seguendo linee per moto contrario. / Sfruttando per le mie vele / flussi di controcorrente. / Cercando sempre le cause / che mi hanno insegnato ad andare / con disciplina anche contro le mie inclinazioni (…) / In verità non mi sono mai legato e adesso / la mia vita fugge in diagonale. / Ritorna prepotentemente un desiderio morale.
Ma già anche Battiato direttamente diceva:
L’Etica è una vittima incosciente della Storia… e penso a come cambia in fretta la Morale.
E vedi anche Sgalambro:
Con tutto ciò, l’imperativo categorico –scilicet: o imperativo morale- che rende conto di una delle possibilità più alte della specie… mi sembra una delle due o tre cose per cui vale la pena dell’esistenza.
Dunque, il fatto di essere ontologicamente «bugiardo e infedele» («bugiardo e incosciente»?) non è detto che ci porti direttamente alla menzogna e all’infedeltà («Ritorna prepotentemente un desiderio morale»). Una cosa è la consapevolezza del nostro essere, anche piacevolmente, impastati di menzogne e tradimento, anche rispetto a noi stessi e alla nostra vocazione, una cosa è l’agire… oppure, e simmetricamente, una cosa è il nostro agire e le sue contraddizioni, e un’altra è la consapevolezza di cosa è il meglio. E siamo a San Paolo: «vedo e conosco il meglio, faccio il peggio». Ma opportuno, per il ragionamento che andremo a fare, riportare le parole esatte di San Paolo:
Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto… io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio… chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?
Commenta, dopo aver ricordato Dostoevskij, un artista, quest’ultimo, che ben conosceva l’abisso dell’animo dell’uomo e la sua infinita, pirandelliana, pluralità e contraddittorietà interiore, il grande biblista Cardinal Gianfranco Ravasi: «questo dramma interiore (quello descritto da Paolo ma, a mio avviso, anche quello rappresentato dalla nostra canzone, ndr.) è la storia di ogni uomo che continua ad ammirare il bene e scegliere il male».
E qui inizia ad apparire un’altra lettura possibile di Vite parallele, di questa canzone che racconta di esperienze esistenziali coesistenti e non coincidenti… a mio avviso, cioè, il testo della canzone va visto, ancora una volta, nella dinamica di essoterismo ed esoterismo, di messaggio e di significato di primo e secondo livello. A questo secondo livello (ovvero al di là della rappresentazione di un dialogo tra amanti) la canzone presenta un dialogo tra l’uomo peccatore e Dio -un dio, un essere superiore, la parte superiore del nostro dialogo interiore- tra l’uomo consapevole della propria ontologica vocazione al peccato e, però, consapevole anche dell’infinita misericordia di Dio.
In questa seconda prospettiva si afferma che avremo certamente riposo nella quiete e nella misericordia infinita di Dio ma dopo un lungo travaglio di vite e di peccati, di bugie e di infedeltà. Detto tutto questo, stupisce ancora la pluralità delle letture possibili e il fatto, altrettanto ricorrente, che la musica suoni, metaforicamente parlando, alla fine sempre uguale.
I concetti da una canzone all’altra, da un volume all’altro, si ripetono e si illuminano coerentemente. Afferma Battiato:
Il cattolicesimo ha avuto dei mistici di grande calibro, e come al solito tutti i grandi coincidono: un mistico indiano, pakistano, o sufi e un mistico di frequentazione cattolica manifestano la stessa spiritualità: Isacco di Ninive (che è ricordato nella canzone intitolata Mesopotamia, ndr.) Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce o sant’Agostino sono tutti uguali… Questo disco viene da zone più alte delle mie, sono un mezzo fra chi crede nella morte e chi nella reincarnazione che avverrà secondo i propri comportamenti. Se leggi Platone, scopri che lui e i tibetani dicono la stessa cosa… non c’è pessimismo. La morte è un passaggio obbligatorio e bisogna prepararsi.
Ferma questa lettura complessiva, e questa prospettiva forse più strettamente propria di Battiato, va osservato che, probabilmente, questa canzone deriva (anche) da (almeno) quattro/cinque luoghi mentali di Sgalambro. Questi luoghi si incrociano con i temi della reincarnazione e della tradizione interreligiosa che appartengono, in effetti, maggiormente a Battiato, mentre il taglio filosofico che si scorge dietro la canzone risale maggiormente a Sgalambro. Il risultato complessivo, però, al di là dei percorsi e delle radici, appartiene fortemente ad entrambi. Afferma dunque Sgalambro:
Non considero la ‘vita’ un fenomeno unitario. Ma esistono tante vite, quante sono le vite. Per cui parlare della ‘vita’ (nel senso in cui ne parlano) mi sembra del tutto inesatto.
Non me ne volere… Ogni volta che affermi che la verità è una, ecco la verità è un’altra.
Doveva alle Vite parallele (scilicet: di Plutarco) lo stimolo all’imitazione degli eroi di pensiero… immaginava che esistessero mille Fedre, tutte belle, mille Mondi come volontà e rappresentazione, tutti veri.
Io credo piuttosto a una molteplicità di esistenze, tutte in atto. Che si prolungano all’infinito e non si incontrano mai. Non interferiscono l’una sull’altra ma sono simultanee.
Mi affascina la vostra molteplicità… i vostri mutamenti di umori e di abiti. Ma soprattutto il vostro vivere come un insieme di parti. (…) Right or wrong, il molteplice è il mio partito.
Dormi sei morto. Ti svegli? Sei rinato, alleluja. Rinascerai per ventimila, forse trentamila volte. La pace sia con te.
Illuminato in modo apodittico il fronte filosofico-letterario per quel che riguarda la frase-concetto «credo nella reincarnazione / in quel lungo percorso / che fa vivere vite in quantità», la palla passa soprattutto a Battiato, vero uomo di confine tra Occidente e Oriente, dove le grandi religioni indiane ed extraeuropee avevano già acquisito effettivamente l’idea di una molteplicità di vite e di universi. Ricordiamo che solo ultimamente Battiato ha portato in canzone in maniera categorica ed esplicita una verità che lui conosce da molto: «Cristo nei Vangeli parla di reincarnazione» (Testamento, 2012), ma si potrebbero ricordare tanti altri passi e, in specifico e ad esempio: «Riportami nelle zone più alte / in uno dei tuoi regni di quiete: / è tempo di lasciare questo ciclo di vite».
Questo verso cita direttamente la filosofia orientale e la religione buddhista-tibetana della moltiplicazione delle vite per la quale, al momento della morte, la nostra essenza si stacca dal corpo, per vivere da sola e riflettere e comprendere il senso profondo di quello che abbiamo fatto in vita; a questa consapevolezza segue una reincarnazione, o un numero plurimo di reincarnazioni, fino «a completa guarigione» (vedi Le sacre sinfonie del tempo), mentre solo il giusto e l’illuminato, ovvero colui che giunge alla comprensione della vera vita eterna, è data la possibilità di interrompere il ciclo e fermarsi in uno dei regni di quiete, una stella dove vivere in eterno. Per inciso, come molte possono essere le vite terrene, plurimi possono essere i mondi: vi sono dicono cento milioni di galassie…
Faremo cenno più avanti alla teoria degli universi paralleli, mentre ora voglio fare riferimento a una suggestione leopardiana che è tra i grandi amori comuni a Battiato e Sgalambro.
«Aggiungo stella a stella» rinvia, o potrebbe rinviare anche, a «noverar le stelle una a una» (ovvero «contare le stelle una ad una» del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 135), poi è da rilevare che il contrasto tra finito e infinito è tipico di Leopardi (e al centro, almeno e canonicamente, dell’idillio L’infinito del 1819), che, nella canzone di Battiato e Sgalambro, diventa il contrasto tra qui («qui vivo vite parallele… ciascuna con un centro con un’avventura) e eterno e infinito («la mia anima… vivrà eterna… l’infinito… vivremo per l’eternità…»). In particolare ritroviamo in Vite parallele la constatazione leopardiana, ma anche romantica, che l’uomo è connotato da una duplice contrastante tensione: l’uomo ha in sé, una tensione infinita (Sgalambro addirittura ripete spesso che, al di là di ogni evidenza, siamo radicalmente convinti della nostra immortalità) ma in uno spazio-tempo finito.
Leopardi, ancora, una volta è poi maestro nell’annullare i confini tra arte e filosofia, tra arte e preghiera, arte e antropologia, ecc. instaurando uno spazio libero che il genio policentrico di Battiato da sempre frequenta. Una traccia grammaticale da L’infinito è poi il gioco forte all’interno del componimento musicale del ma, congiunzione avversativa, che introduce, nello spazio finito e limitato dell’uomo, la tensione e la consapevolezza di un oltre, di un infinito.
Implicita nella teoria della pluralità delle vite, la teoria degli universi paralleli che, in ambito novecentesco, rinvia alla meccanica quantistica, teoria ormai riconosciuta in gran parte dalla scienza ufficiale. In particolare questa concezione degli universi paralleli è capitale per la teoria della relatività di Einstein e un riferimento preciso agli infiniti mondi di Giordano Bruno martire e scienziato della verità.
Per concludere vorrei tornare sul concetto di fedeltà e di infedeltà in un arco che va dai Salmi a Battiato e Sgalambro.
La parola fedeltà è al centro della riflessione biblica e in specifico nei Salmi («alle tue mani affido il mio spirito … Jahweh Dio fedele», 31, 6). In particolare va poi ricordato che i Salmi sono uno dei luoghi dove matura, nella civiltà letteraria e culturale occidentale, la tecnica del dialogo. Afferma Ravasi che i Salmi descrivono l’incontro dialogico tra l’uomo e il suo Dio e che i temi in discussione sono amore, fedeltà, fiducia, intimità. Ricorrente poi è la situazione del rimprovero di Dio all’infedeltà dell’uomo: «tu distruggi chiunque è a te infedele… il mio bene è stare vicino a Dio» (Salmi, 73) e la risposta dell’uomo di fronte a questa accusa è duplice. Da un lato, la consapevolezza della propria ontologica peccaminosità («sono bugiardo e infedele»), dall’altro, in qualche modo, una richiesta di perdono («non me ne volere»). Dalla consapevolezza della possibilità del perdono nasce poi la certezza che vivremo vicino a Dio per l’eternità («sono sicuro vivremo per l’eternità» -scilicet: presso il Motore Immobile, ovvero Dio). Questo perdono è certo anche se continui sono, e sono stati, i nostri tradimenti. Nondimeno la pretesa di Dio è «esclusività di sentimenti»: «Io sono un Dio geloso» -si ripete ossessivamente nella Bibbia e nei Salmi– «Sviati lo tradirono… e lo resero geloso» (Salmi, 77, 57-58).
Alla luce di quanto detto, non credo che nella canzone vi sia una citazione diretta ma un riferimento sostanziale (che si incrocia, naturalmente, con altri che abbiamo cercato prima di evidenziare) e credo anche che questo riferimento appartenga in particolare, nel suo fronte religioso, più a Battiato che a Sgalambro. Battiato ha fatto infatti della Bibbia, e in particolare dei Salmi, il centro della sua riflessione specialmente negli anni Novanta. L’esito è però un sommarsi sincretico, ma assolutamente coerente, di linea filosofica e religiosa.
Battiato e Sgalambro, Vite parallele.
La locuzione «motore immobile» è di Aristotele e poi della Scolastica e di San Tommaso, luoghi a lungo frequentati da Sgalambro.
Questa canzone, sinteticamente e in maniera apodittica, descrive una psicomachia, una lotta interiore tra una parte di noi che aspira alla quiete infinita e una parte, umana, dispersa nella pluralità delle vite e dei desideri. Naturalmente questa lettura s’impone oltre, e al di là del primo livello che è quello di un dialogo tra amanti e si presenta, invece, come un dialogo tra un essere umano e un essere superiore che potrebbe essere Dio o una parte superiore dell’anima stessa.
Vorrei, per confermare questa linea interpretativa, iniziare questo commento con il ricordare un’altra canzone di Battiato e Sgalambro:
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Dichiarazioni
Allora, com’è che un filosofo serio come lei si è trovato a scrivere canzoni?
Bisogna vivere tutte le vite possibili. Una volta bastava concentrarsi sulle opere, nell’illusione che qualcosa potesse rimanere. Il filosofo, per esempio, non doveva far altro che pensare; oggi non è più così. Sto vivendo una seconda vita da quando, per caso, sono entrato in un nuovo reparto di cose. Salgo sul palcoscenico, ho il cachet di coloro che calcano il palcoscenico, ultimamente ho anche cantato. L’occasione è tutto. Scrivere un libro e pubblicarlo che merito è? Il caso, la concatenazione delle circostanze, l’imponderabile fanno sì che si diventi qualcosa anziché un’altra. Io sono pronto ad ogni evenienza, ad ogni nuova partenza: un viaggiatore che non sa dove sta andando… A Catania, mi dicono, non sono più di sessanta gli studenti iscritti al corso di laurea in filosofia, a petto del migliaio di scienze della comunicazione, della formazione, o che so io… Bene, ciò dimostra che non c’è filosofia nell’istituzione. La filosofia nasce dall’urto delle cose.
[SGALAMBRO A M. COLLURA, CORRIERE DELLA SERA, 22/7/2000]