Quello che fu
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¶Ah! Questo passato dove il mio rifugio presso di te
fu quello che fu,
dove la polvere più pura sulla tua soglia,
fu quella che fu.
¶Duri come pietre come due amici eravamo insieme.
Preso del tuo cuore ho detto che il nostro legame
fu quello che fu.
Irragionevole, non ci poteva niente,
non potevo immaginarmi senza.
La follia fu quella che fu, fu quella che fu.
¶L’impero delle parole
la distinzione tra bene e male
la ripida discesa dal cielo alla terra
disperata verso l’incarcerazione
fu quello che fu
¶la circumnavigazione
i nomi che si diedero alle cose
la gioia e il dolore dell’esistere
l’enigma del consenso
le emozionali imprese della specie
fu quello che fu, tutto fu quello che fu.
¶Quel che deve ancora avvenire
il sorgere della città di Dio
l’emblema che ci fa forti e sicuri
oppure pazzi e disperati.
¶Ti gridavo: sono disperso, disperso.
Il testo di Quello che fu è basato sulla rievocazione e sul superamento di momenti di vita passati e di clichés, dei quali anche «la polvere più pura» viene ridotta all’osso.
Quello che viene descritto all’inizio del testo è un rapporto tra amanti costituito di alti e bassi, come tutte le relazioni amorose. Ma il tipo di amore di Quello che fu è l’esatto opposto di quello «sillogistico» di Amata solitudine, è irragionevole, e non si può farne a meno, ma in definitiva è una follia e niente più.
Follia che si riversa anche negli elementi presi in rassegna nel prosieguo della canzone.
L’esito di essi è il delirio, o al più lo smarrimento. L’«impero delle parole» (il termine «impero» appare poi in Ermeneutica, seppure riferito al potere) ritorna nel sintagma «i nomi che si diedero alle cose», che potrebbe adombrare un nominalismo moderato alla Ockham, personaggio non nuovo alla coppia Battiato-Sgalambro.
Secondo questa dottrina, i concetti e i termini generali e quelli che in filosofia sono detti gli universali non possiedono una propria esistenza prima e scollegata dalle cose né aldilà o al di fuori delle cose ma sono semplicemente concepiti come nomi.
Il linguaggio è destinato a dissolversi nel non-sense: in Ermeneutica sembra esserci una chiave di lettura, o soluzione, «solo quando il Sacro parla, l’Eccelso prende forma».
Proseguendo nel testo, viene introdotta una serie di contrari, di quelle che in Di passaggio sono chiamate diametrali delimitazioni, ovvero opposizioni: «la distinzione tra bene e male» che rimembra la coincidentia oppositorum di Blake; «la ripida discesa dal cielo alla terra disperata», che ha un che di miltoniano; «la gioia e il dolore dell’esistere», che richiama un tema leopardiano, e ritorna ben undici anni dopo:
la linea orizzontale / ci spinge verso la materia, / quella verticale / verso lo spirito.
Un concentrato di opposti alla pretesa oggettività e assolutizzazione del relativo. Un’altra opposizione, seppur velata, è la «rapida discesa» che avviene dall’anima al corpo, cioè l’incarcerazione, aspetto platonico che rientra pienamente nell’area semantica della dicotomia spirituale-materiale.
Running against the grain sembra riprendere l’idea del ripercorrere il passato e del dare un giudizio umano sul vissuto:
Osservo la mia condizione / Il mio prezioso ed alterno passato / Le mie bizzarre imprese / Sono mercurio colorato.
L’azione avviene all’interno del testo anche attraverso la «circumnavigazione», presumibilmente quella del globo, compiuta da Magellano nel 1522, implicitamente definita una delle «emozionali imprese della specie», così come all’esterno di esso, nelle «bizzarre imprese» di Running against the grain, dove l’individuo cerca il contatto con il cosmo («la mia vita cerca fughe in diagonale»), tra l’altro dopo l’ammissione «in verità io non mi sono mai legato», il contrario rispetto al «nostro legame».
Le imprese sono «emozionali», altro riferimento alla sfera sentimentale contrapposta a quella razionale, che le pone in definitiva sullo stesso piano del «nostro amore» che è «irragionevole».
Prendiamo ancora una volta in considerazione la canzone Ermeneutica, nella quale la maggioranza dei concetti paiono la precisa evoluzione del pensiero presente in Quello che fu, il suo sviluppo in una determinata direzione che può giungere al loro rovesciamento, al loro superamento e totale opposto.
L’espressione «l’enigma del consenso» riporta a «gli stati mostri», «i regimi fascisti», il fatto stesso che «s’inventano democrazie», è essa stessa una ennesima «diametrale delimitazione» implicita, in quanto il termine «enigma» presuppone di per sé una contraddizione, una opposizione, una ambiguità tra due estremi, un’oscillazione continua tra adulazione e servilismo.
Il punto è, anche qui, la distinzione tra ciò che è «aura» e ciò che è «patina», l’autentico e il posticcio, la genuinità e il filisteismo, la purezza e il fanatismo, proprio come in Bachtin che sottolinea l’esigenza di (ri)definire ruoli e valori.
Le opposizioni non finiscono qui, perché esiste anche quella intrinseca al rapporto, nell’ambito di una dialettica molto ostica poiché rischiosa, il dualismo tu-io, sé-altro da sé: «il mio rifugio presso di te».
Nel testo de I giorni della monotonia, questo rapporto, analogo a quello passionale di Quello che fu, trova così il suo punto di non ritorno: «tra noi due ho scelto me», che pare una libera parafrasi di «La follia fu quella che fu». Da notare anche, nella canzone Eri con me, il passo
eri con me, ma io non ero con te, / sei con me, ma io non sono con te, / ero con te, ma tu non eri con me,
che ripropone lo stesso schema per cui bisogna guardarsi dall’ambiguità, dalle forze contrastanti che vivono dentro di noi.
Utilizzando una probabile, quanto sottile ironia, Sgalambro chiosa l’elenco di sovrastrutture minimizzate con una ulteriore semplificazione: «fu quello che fu, tutto fu quello che fu», di grand’effetto, dal momento che pare come l’apice (in questo caso il punto più basso) dell’intero climax.
Tutto fu quello che fu. Invece, poi, «quel che deve ancora avvenire» presuppone che il futuro è preda di una necessità, come sarà in Eri con me: «ciò che deve accadere accadrà».
Il sorgere della città di Dio va sicuramente interpretato a un primo livello di lettura in chiave agostiniana, ma è ridotto a un simbolo, e ci richiama un passo dell’Apocalisse (21,2): «Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo».
«L’emblema che ci fa forti e sicuri» è l’opposizione che chiude l’elenco delle diametrali delimitazioni, in quanto messa in forte contrasto e in chiasmo con «oppure pazzi e disperati»: la disgiuntiva fa andare di pari passo le due antinomie «forti-disperati» e «sicuri-pazzi».
Scrive il celebre filosofo, critico letterario e storico russo Michail Bachtin nella sua opera sul comico Rabelais e la cultura popolare:
Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù.
Durante quel periodo, si afferma una «coscienza della gioiosa relatività delle verità e delle autorità dominanti». Esso si oppone ad ogni perpetuazione, ad ogni carattere definitivo e ad ogni fine. Tutte le feste popolari
hanno sempre un rapporto essenziale con il tempo (…) in tutte le fasi di evoluzione storica, sono sempre legate a periodi di crisi, di cambiamento, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo.
«Pazzi» è inoltre, a proposito di riso carnevalesco, l’esatta traduzione di fool, e il clown non esiste senza la sua parte di tragicità, a patto che sia veicolo di qualcosa di più alto, come un messaggio sociale.
«Disperati» richiama la disperazione della «rapida discesa», come la caduta di Lucifero verso la prigione infernale.
Tutti i temi presenti nel testo sono collegati dal filo conduttore, che è un po’ la soluzione (utopica) più o meno adombrata in Ermeneutica, ossia liberare ogni struttura (sia essa religiosa, politica, sociale, o umana) dalla sovrastruttura che il «virus umano» ha costruito, e attuare un recupero radicale della genuinità delle cose.
La canzone si apre con il deittico «questo», che avvicina il passato per poi minimizzare e allontanarlo con l’altro deittico («quello») e si conclude (in modo non troppo analogo alla successiva Running against the grain, «indipendente la mia vita fugge») con la dichiarazione che, almeno per ora, non c’è speranza, si sente solo lui gridare all’interlocutore, un tu che viene reso partecipe della disperazione, «sono disperso», con l’efficace paronomasia «disperati» / «disperso».
Il testo di Quello che fu è basato sulla rievocazione e sul superamento di momenti di vita passati e di clichés, dei quali anche «la polvere più pura» viene ridotta all’osso.
Quello che viene descritto all’inizio del testo è un
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