L’ombrello e la macchina da cucire
L'ombrello e la macchina da cucire
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¶Ero solo come un ombrello su una
macchina da cucire.
Dalle pendici dei monti Iblei,
a settentrione.
¶Ho percorso il cammino,
arrampicandomi
per universi e mondi,
con atti di pensiero e umori cerebrali.
¶L’abisso non mi chiama, sto sul ciglio
come un cespuglio: quieto come un insetto
che si prende il sole.
¶Scendevo lungo il fiume scrollando le spalle…
Che cena infame stasera,
che pessimo vino,
chiacchiero col vicino.
Lei non ha finezza,
non sa sopportare l’ebbrezza.
¶Colgo frasi occidentali.
Schizzano dal cervello i pensieri –
fini le calze,
la Coscienza trascendentale,
no l’Idea si incarna.
Dice che questa estate
ci sarà la fine del mondo.
The end of the world,
berretto di pelo e sottanina di tàrtan.
Have we cold feet about the cosmos?
La canzone è complessivamente un ritratto del protagonista (più Sgalambro che Battiato, ma Sgalambro è uno specchio nel quale Battiato in gran parte si riconosce), delle sue preferenze filosofiche e letterarie. E della sua consapevolezza che vita e filosofia vanno agite essendo certi della fine del mondo e della precarietà della nostra esistenza.
Nel primo periodo manca il verbo che diventa esplicito, per analogia, solo con il quarto periodo: «scendevo…». Dunque, con le prime due frasi opportunamente integrate, questa una possibile parafrasi:
Ero solo come un ombrello su una macchina da cucire e (scendevo) dalle pendici dei Monti Iblei (Sicilia) e (da solo) ho (anche) percorso il cammino (della mia riflessione filosofica ed esistenziale) arrampicandomi per universi e mondi con atti di pensiero e umori celebrali.
Per ora, la morte, ovvero l’abisso, non mi chiama e posso, quindi, restare sull’orlo (cioè sul ciglio) dell’abisso e della morte godendo del sole e della vita come fanno in quiete (e in pace) tanto un cespuglio quanto un insetto.
Intanto che scendevo ripensavo anche alla pessima cena della sera (che pessimo vino!) e ai discorsi fatti e sentiti. Al vicino di tavolo avevo anche parlato della mia donna che, mancando di finezza (e di alta formazione filosofica ed esistenziale) non sa sopportare l’ebbrezza di un rapporto non convenzionale e che sia anche filosofico e speculativo.
Mentre cenavo coglievo (anche) delle frasi in diverse lingue occidentali e queste frasi mi facevano schizzare pensieri dal cervello.
Dato ciò, quali sono più precisamente i pensieri del protagonista e quali le frasi che ascolta? In primo luogo, contro l’astrattezza di Kant e della sua «Coscienza trascendentale», si ribadisce una diversa necessità filosofica ed esistenziale: «no, l’Idea si incarna».
Le frasi seguenti si legano poi al tema della «fine del mondo» ma osserviamo subito che «la fine del mondo» e il «terrore cosmico» ma anche i più prosaici e dissacranti «berretto di pelo e sottanina di tartan» come le precedenti «calze fini… come s’usa a Parigi», sono tutti luoghi del quindicesimo episodio dell’Ulisse di Joyce, un libro questo di Joyce amatissimo da Sgalambro e da lui più volte citato. Ne viene la domanda «Have we cold feet about the cosmos?» tradotta con «abbiamo fifa forse del cosmo?». La risposta è negativa perché, come preciseremo tra poco, l’essere consapevoli e certi della fine del mondo e del cosmo è il presupposto necessario che deve avere una possibile etica (e teologia) autenticamente contemporanea e all’altezza delle sfide odierne.
Infine e probabilmente la canzone nel suo complesso deriva, o comunque si lega, ad un aforisma di Sgalambro intitolato Prix du progrès che riportiamo a fianco e che deriva anch’esso dall’Ulisse di Joyce.
Il senso di questo brano nasce allora, forse, dalla constatazione della caduta della speculazione filosofica e teologica occidentale e dalla domanda se il nostro occidentale sia vero progresso. In questo aspro contesto storico prendono invece sempre più valore l’arte e la letteratura occidentali (in particolare Joyce e Eliot, ma anche, come vedremo, il Surrealismo). Arte e letteratura, infatti, sia pure sotto l’aspetto della chiacchiera vana, diventano in effetti punti di riferimento indispensabili nella costruzione di un’Etica che abbia l’Apocalisse e «la fine del mondo» come criterio sulla base del quale valutare le nostre scelte di vita e di pensiero.
Afferma in questo senso Sgalambro: «al di là dell’etica sociale si profila l’etica cosmica, in cui si decide l’atteggiamento dell’individuo davanti all’universo… egli invoca la fine… alla luce di essa si collocano le sue azioni»: «la speranza del filosofo d’oggi… una filosofia che possa valere per la fine del mondo»). Dunque:
la fine del mondo è qui data in un’esperienza di contemporaneità… per chi fa quest’esperienza le differenze temporali si disfano. Pertanto ogni azione diventa etica o resta confinata nella malvagità, proprio in quanto si rapporta alla fine del mondo. Da qui deriva la sua nobiltà e il senso di una superiore necessità. L’agire acquista il suo senso cosmico in quanto si collega alla fine del mondo. Per colui che sente come il mondo sia finito e le stelle si stiano già spegnendo, stringersi all’altro, nel senso di una superiore comunità, è il grande fatto etico. È come se ci abbracciassimo in un addio lunghissimo ma inevitabile.
Quello di un’etica capace di commisurarsi con questo evento apocalittico è comunque un tema centrale in Sgalambro fin dal suo primo volume intitolato, significativamente, La morte del sole, e al tema apocalittico si ricollegano tanto il senso dell’ultima frase, quanto, forse, il senso complessivo della canzone.
Alla luce di quanto detto, possiamo affermare che l’Ulisse, l’opera più famosa di Joyce, è un modello per la scrittura che Battiato e Sgalambro spesso adottano nelle loro canzoni, una scrittura a flusso di coscienza (la tecnica principe di Joyce) e priva dei consueti nessi logico-sintattici e realistici. E nondimeno capace, di sguincio e non in forma diretta, di fare da guida nella costruzione di una nuova riflessione che porti a una nuova etica e a una nuova teologia.
La citazione conclusiva della canzone è dunque coerente con l’incipit perché «una macchina da cucire con un ombrello» era una frase spesso citata da André Breton e con la quale egli voleva sintetizzare l’intero programma del Surrealismo.
Per il movimento, nato a Parigi come risposta alle divisioni interne al gruppo Dadaista, l’associazione di idee, l’accostamento imprevedibile e la scrittura a flusso di coscienza erano, infatti, strumenti utilissimi per scardinare i principi razionali della comunicazione estetica tradizionale e ottocentesca. Le soglie dell’arte e della visibilità devono cioè ampliarsi fino a includere i linguaggi legati ai processi irrazionali dell’inconscio, nell’intento di fondare una nuova modalità artistica e di produrre una forma di conoscenza svincolata dai saperi e dalle logiche convenzionali e tradizionali. Ed è quello che Battiato e Sgalambro mettono in atto fin dal loro primo incontro.
Per chiudere sono però necessarie alcune ulteriori precisazioni. Con il termine «coscienza trascendentale», utilizzato da Kant, si indica la coscienza pura, aprioristica (che si pone prima di ogni cosa), che trascende il vincolo con la realtà materiale perché data indipendentemente da essa. Kant afferma che trascendentale è ogni conoscenza già presente nell’uomo, e in particolare le modalità aprioristiche della coscienza attraverso le quali comprendiamo gli oggetti della realtà:
Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa, non degli oggetti ma del nostro modo di conoscere gli oggetti.
Sgalambro, con Arthur Schopenhauer, suo maestro e filosofo post-kantiano ottocentesco, si oppone a una visione tanto disincarnata del pensiero. Le opere di Sgalambro sono in effetti, e complessivamente, il presupposto genetico della canzone. Ad esempio i versi «Dice che questa estate ci sarà la fine del mondo… l’abisso non mi chiama» rimanda in qualche modo a «vedi che saremo tutti distrutti e inghiottiti in un abisso senza fine?»; se questo è vero, è vero anche che «sul ciglio dell’abisso Mahler compone Il canto della terra» e «canticchia una canzone napoletana».
La parte conclusiva della canzone chiede infine di rammentare una frase contenuta in un’altra opera di Sgalambro e che ci permette di comprendere un passo totalmente ellittico: «Mentre cammino colgo frammenti di conversazione che si uniscono in un solo discorso». Non solo, ma forse è da qui che è nata la canzone e i suoi successivi addensamenti.
Del delitto, p. 88
sempre dall’Ulisse ancora a p. 685
La canzone è complessivamente un ritratto del protagonista (più Sgalambro che Battiato, ma Sgalambro è uno specchio nel quale Battiato in gran parte si riconosce), delle sue preferenze filosofiche e letterarie. E della sua consapevolezza che vita e filosofia vanno agite essendo certi della fine del mondo e della precarietà della nostra esistenza.
Nel primo periodo manca il verbo che diventa esplicito, per analogia, solo con il quarto periodo: «scendevo…». Dunque, con le prime due frasi opportunamente integrate, questa una possibile parafrasi:
Ero solo come un ombrello su una macchina da cucire e (scendevo) dalle pendici dei Monti Iblei (Sicilia) e (da solo) ho (anche) percorso il cammino (della mia riflessione filosofica ed esistenziale) arrampicandomi per universi e mondi con atti di pensiero e umori celebrali. […]
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