Il vuoto
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¶Tempo non c’è tempo sempre più in affanno
inseguo il nostro tempo vuoto di senso senso di vuoto
E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto
year play rest my way day thing man your world life
the hand part my child eye woman cry place work week
end your end case point tu sei quello che tu vuoi
government the company my company
ma non sai quello che tu sei
¶Number group the problem is in fact money money
Danni fisici psicologici collera e paura stress
sindrome da traffico ansia stati emotivi
primordiali malesseri pericoli imminenti
e ignoti disturbi sul sesso
¶Venti di profezia parlano di nuovi dei che avanzano
year play…
¶Tempo non c’è tempo sempre più in affanno
inseguo il nostro tempo vuoto di senso senso di vuoto
¶Danni fisici psicologici collera e paura stress
sindrome da traffico ansia stati emotivi
primordiali malesseri pericoli imminenti
e ignoti disturbi sul sesso
¶Venti di profezia parlano di nuovi dei che avanzano
Tu sei quello che tu vuoi ma non sai quello che tu sei end your case point
Tu sei quello che tu vuoi government and company my company
ma non sai quello che tu sei
¶Number group the problem is in fact money money
Tempo non c’è tempo sempre più in affanno
inseguo il nostro tempo
vuoto di senso senso di vuoto.
Il tema del vuoto è già stato significativamente presente in Battiato, con Sgalambro e prima: «Giriamo sospesi nel vuoto intorno all’invisibile, ci sarà pure un Motore immobile» (Vite parallele, 1998); «Vuoto di senso crolla l’Occidente / soffocherà per ingordigia / e assurda sete di potere / e dall’Oriente orde di fanatici» (Zai Saman, 1987). Nelle pagine seguenti seguiremo in particolare la prospettiva di Battiato. Nondimeno, come spesso nelle canzoni di Battiato-Sgalambro, è possibile rintracciare alcuni germi del percorso genetico della canzone nei libri di Sgalambro. Ad esempio troviamo: «Il sospetto, esternato più volte, che lo stesso concetto di vita sia ‘vuota’ consolazione, non punta il dito sul vuoto ma mostra… l’estremo rilievo della consolazione per la vita». La canzone (e il nostro commento) approfondisce dunque questo valore duplice del vuoto, quello angosciante, e quello consolatorio. E vedremo anche che tutto questo, per Battiato, ha un forte legame con quello che per semplificazione chiamiamo Buddhismo (tibetano o del Grande Veicolo). In questa prospettiva, e ad esempio, notiamo che il termine Samsara, che letteralmente vuol dire «sempre in movimento», un termine chiave per tutte le tradizioni induiste e buddhiste, descrive proprio questa mancanza di rapporto con se stessi, sempre tesi a raggiungere qualcosa che è, invece, causa di danni fisici ed emotivi, «primordiali malesseri», «pericoli imminenti», in definitiva emozioni distruttive, autodistruttive, negative.
Battiato afferma in un’intervista che ci sono due «tipi di vuoto», uno, semplificando, è il rumore che ci stordisce fino a darci una sensazione di totale disorientamento (come la sensazione di «essere nel vuoto» etico ed esistenziale), l’altro è quello che, in una prospettiva mistica, ci fa comprendere che tutto, in ultima e radicale analisi, è nulla, è vuoto. Ad esempio, nel passaggio «Mi fondo sulla beatitudine insita nel mio intimo, ho smascherato il fantasma delle vane speranze, considero quest’intero universo alla stregua di un trucco da baraccone: come potrebbe la sciagura della rinascita farsi strada in me, che non sono attaccato a nulla?»; nella canzone Haiku (1993): «Seduto sotto un albero a meditare / mi vedevo immobile danzare con il tempo / come un filo d’erba / che si inchina alla brezza di maggio / o alle sue intemperie. / Alla rugiada che si posa sui fiori / quando s’annuncia l’autunno / assomiglio / io che devo svanire / e vorrei / sospendermi nel nulla / ridurmi / e diventare nulla». «Perché come diceva un grande mistico tibetano, “tutto quello che tu vedi sparirà”». «Il vuoto è un vocabolo ambiguo, l’ho scelto apposta. I mistici orientali hanno considerato vuoto anche la divinità. Sono zone amorfe. Come il cielo. Non c’è fisionomia, solo il senso della percezione dell’esistenza. Quindi con l’assoluto c’è apparentamento profondo». Di «vuoto mistico» parla Sgalambro ma ricorda anche che «Hegel nell’Estetica descrive in anticipo i tristi protagonisti, come poi fece Balzac nella Commedia umana: “egoisti, litigiosi, frivoli, tronfi, senza fede e conoscenza, chiacchieroni, millantatori, vuoti…”».
Dunque ci troviamo di fronte a due concezioni del vuoto, una negativa (in ultima analisi annullante e nichilista) e una seconda concezione, invece, positiva, perché capace di farci comprendere, rettamente, la radice ultima della nostra realtà umana. Questo ci dicono gli Dei (i messaggi divini) che avanzano, che stanno arrivando. Posto che uno sappia percepire, nel frastuono dissonante della contemporaneità, la limpida voce della spiritualità, e posto che uno sappia cogliere, nelle pieghe (piaghe) dolorose dell’oggi, le profezie (i messaggi segreti) che vi sono nascoste.
Dato questo senso generale, ripartiamo dall’intervista di Battiato a Elena Giano perché essa ci dà un’indicazione preziosa che seguiremo e cercheremo di approfondire ma diamo dunque la parola direttamente a Battiato e riportiamo più estesamente l’intervista già citata:
Elena Giano: È questo Il vuoto, come ha chiamato il suo ultimo disco?
Battiato: Nel disco Il vuoto ha un doppio significato: oltre a questo, c’è il vuoto mistico.
Elena Giano: È possibile mantenersi allo stesso tempo semplici e profondi? La conoscenza di se stessi aiuta a vivere bene il quotidiano o è uno svantaggio rispetto a chi vive superficialmente?
Battiato: Chi vive superficialmente commette più delitti: intanto non è all’altezza dell’intelligenza della vita. Poi, una vita superficiale non merita di essere vissuta, perché non ha significato e in fondo non è degna dell’essere umano. L’altra strada apparentemente comporta più sacrifici: compreso quando si scoprono i propri difetti. Ma è inutile stordirsi e continuare a ignorarli.
Il tema del vuoto è già stato significativamente presente in Battiato, con Sgalambro e prima: «Giriamo sospesi nel vuoto intorno all’invisibile, ci sarà pure un Motore immobile» (Vite parallele, 1998); «Vuoto di senso crolla l’Occidente / soffocherà per ingordigia / e assurda sete di potere / e dall’Oriente orde di fanatici» (Zai Saman, 1987). Nelle pagine seguenti seguiremo in particolare la prospettiva di Battiato. Nondimeno, come spesso nelle canzoni di Battiato-Sgalambro, è possibile rintracciare alcuni germi del percorso genetico della canzone nei libri di Sgalambro. Ad esempio troviamo: «Il sospetto, esternato più volte, che lo stesso concetto di vita sia ‘vuota’ consolazione, non punta il dito sul vuoto ma mostra… l’estremo rilievo della consolazione per la vita». La canzone (e il nostro commento) approfondisce dunque
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In coerenza a tutto questo, i primi versi sono estremamente efficaci e denunciano quello che è la principale caratteristica della nostra contemporaneità e forse della generale condizione esistenziale dell’uomo: l’essere continuamente affannati da cose che il Buddhismo (ma anche un filosofo molto caro a Sgalambro quale Schopenhauer ma, allargando il nostro orizzonte, molta parte della mistica e della sapienza anche occidentale e cristiana) definiscono totalmente irreali (spiritualmente nulle). Non solo, ma il mondo contemporaneo in specifico («il nostro tempo») è più di tutto schiavo di quella «allucinazione collettiva» che è il denaro («the problem is… money, money, money»). Neppure la plutolatria, il culto smodato del denaro, è una novità in Battiato e Sgalambro: ad esempio: 23 cromosomi (2004) da cui è tratto il sintagma «il denaro è un’allucinazione collettiva», e che citeremo anche più avanti e la più recente Il serpente (2012) dove si dice «Il denaro strisciava come il serpente / nelle città d’Occidente così si celebrava, / ma da qualche parte un uomo nuovo nasceva»; dove, dalla Bibbia in poi, il Serpente è Satana: da qui la locuzione implicita nella canzone che il «denaro è lo sterco di Satana».
A uno sguardo più profondo risultano infine evidenti altre specifiche caratteristiche dell’umanità presente e passata, cioè l’inconsapevolezza di quello che siamo e specialmente che quello che siamo è il risultato di quello che abbiamo voluto e desiderato . Per un approfondimento coerente, tra le canzoni di Battiato, ricordiamo come particolarmente significativa quella intitolata Il cammino interminabile (2001) dove con Sgalambro scrive, riecheggiando il pensiero buddhista e ribadendo il tema della reincarnazione: «Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi, se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi», dove naturalmente la parola «pensieri» vale anche «azioni e desideri» (ma si veda anche: «Per sapere dove vai / per sapere cosa sei / chi ti incarna / a chi somigli». E prima Fisiognomica (1988):
Leggo dentro i tuoi occhi / da quante volte vivi / dal taglio della bocca / se sei disposto all’odio o all’indulgenza / nel tratto del tuo naso / se sei orgoglioso fiero oppure vile / i drammi del tuo cuore / li leggo nelle mani nelle loro falangi / dispendio o tirchieria. / Da come ridi e siedi / so come fai l’amore / quando ti arrabbi / se propendi all’astio o all’onestà / per cose che non sai e non intendi / se sei presuntuoso od umile / negli archi delle unghie / se sei un puro un avido o un meschino.
Noi dunque siamo frutto e risultato delle nostre scelte: «tu sei quello che vuoi» che implica anche quello che hai voluto. Questo verso ha, come tutta la canzone, una lettura meramente sapienziale (umana) e un’ulteriore lettura, coerente con alcune riflessioni vicine al pensiero buddhistico. Al primo livello Battiato e Sgalambro ci dicono che i nostri desideri ci segnano, ci identificano e questo è profondamente vero anche in situazioni estreme. Pensiamo, ad esempio, al martirio ad Auschwitz di Padre Kolbe coerente con la propria volontà e i propri desideri al di là di quello che era il volere, dispotico e fanatico, dei suoi carnefici. Ma non diversamente il discorso vale per un martire dell’Inquisizione cattolica quale Giordano Bruno o della follia umana quale il martire sufi Husayn ibn Mansur al Hallag (852-922). Noi siamo, comunque, quello che desideriamo e quello che vogliamo. Si rifletta sulla straordinaria coincidenza di questa concezione karmatica con la legge del contrappasso che ritroviamo anche in Dante dove le pene dell’Inferno rivelano quelli che sono stati i nostri desideri. Ad esempio Francesca e Paolo si sono lasciati travolgere da una passione senza regola e confini e, di conseguenza, sono trascinati da un vento che non dà loro tregua. E questa pena (questa reincarnazione?) durerà non, come dà mostra di credere Dante, «in eterno», ma fino a quando si sarà giunti a un nuovo stato di consapevolezza, fino a quando, come dicono in un’altra canzone Battiato e Sgalambro, sarà completo un «rito di purificazione» (di «riti di purificazione» e «stati di gioia» parla anche Dante fingendo che riguardino solo le anime del Purgatorio). Non è naturalmente questa la sede per approfondire né la concezione mistico-religiosa di Dante né il rapporto tra Dante e Battiato e Sgalambro che pure viene citato sia in forma diretta («fatti non foste per viver come bruti ma per servir virtude e conoscenza» nella canzone Testamento del 2012) che in forma indiretta («ho camminato girando a vuoto… / mi ritrovai…»; si veda quanto da noi scritto nel commento a Fortezza Bastiani).
Dunque questo il senso (uno dei sensi) della frase che dice «tu sei quello che vuoi… ma non sai quello che tu sei». È necessario cioè acquisire sempre di più consapevolezza di quello che siamo autenticamente per uscire dagli «inutili dolori», ovvero per liberarci dalla nostra natura materiale e farci, invece, invadere dalla nostra interiore tensione spirituale («inutili dolori» è un efficace sintagma di Battiato che troviamo in una sua canzone dal titolo Come un cammello in una grondaia del 1991; troviamo questo pensiero sinteticamente espresso nel Vangelo di Giovanni: «Così conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi»). Precisa ancora Battiato: «Nulla è permanente, niente è duraturo, ma questo è proprio ciò che noi esseri umani non riusciamo ad accettare… Il nostro ego si oppone, usando ogni trucco. Questo io, per quanto ridicolo a volte possa sembrare, vorrebbe vivere in eterno; non ci si può aspettare che l’ego rinunci di buon grado al proprio predominio. Nella misura in cui muore il nostro piccolo io, questo aggregato di processi psichici, pauroso, disperato, aggressivo, opportunistico, manipolante, e troppo di rado gioioso, si sviluppano di pari passo la fiducia, la vera gioia e una vera speranza. Ma evidentemente non ci interessano affatto l’evoluzione del principio divino, lo sviluppo dell’universo, la molteplicità delle possibilità. Ci interessano solo io e mio». Dunque la frase «tu sei quello che vuoi… ma non sai quello che tu sei» (il messaggio centrale della canzone) ha, in coerenza con la canzone nel suo complesso, due ulteriori livelli di lettura.
Il primo rimanda a un sapere umano e persino psicanalitico: gli «inutili dolori» sono quelli altri rispetto a quelli che ci procura, naturalmente, l’esistenza del nostro corpo destinato a morire e a disintegrarsi, dolorosamente, nel tempo; gli «inutili dolori» sono cioè quelli che, sulla scorta di Freud, definiamo nevrotici, causati cioè dai nostri «fantasmi» e non dalle vicende naturali e storiche. Da notare che la parola «fantasmi» la troviamo in un’altra canzone de Il vuoto (2007), intitolata Stati di gioia, già prima implicitamente citata, fortemente coerente con quanto qui si afferma:
Le azioni del mondo non influenzano il sole / e i nemici è sicuro sono dentro di noi / com’è possibile restare ciechi per così lungo tempo / Mi trovavo a lottare contro i miei fantasmi / spostandomi in avanti per quanto lo permette la catena / scopersi per caso lo stato che ascende alla Gioia.
Il secondo livello, coerente con il primo e appena sotto traccia, rimanda a quello che è il centro del pensiero del Buddha, la liberazione dal dolore. Ora possiamo capire di cosa parlano gli «dei che avanzano» e cosa ci dicono i profondissimi «venti di profezia» che scuotono il nostro tempo e le nostre persone (il riferimento a Paolo e Francesca non era così peregrino come poteva sembrare). Gli Dei e le Profezie (o Dio e le sue Profezie, le sue Parole) rivelano quello che noi siamo, i nostri desideri, le nostre scelte e possono essere fauste (positive) o negative a seconda di quello che noi siamo, di quello che desideriamo, di quello che noi scegliamo veramente di essere, in questa e nelle nostre prossime vite, terrene e ultraterrene.
Se questo il messaggio centrale della canzone è poi da rilevare che essa è «infarcita» dal martellamento di parole sconnesse in inglese e pure angoscianti («anno gioca riposo a modo mio giorno cosa l’uomo il tuo mondo vita la mano parte il mio bambino occhio donna piangere posto lavoro settimana fine la tua fine caso punto», e poi «governo la compagnia la mia compagnia», e «il numero il gruppo il problema è di fatto il denaro il denaro»). Dice Battiato: «L’idea è nata da un’indagine che ha fatto il dizionario di Oxford sulle cento parole più usate nel mondo. (…) Io ho preso da questa lista le prime venti, aggiustandole per dare musicalità e le ho utilizzate mettendole in… sequenza. (…) Da notare che non ci sono mai le parole pace amicizia amore». Da notare anche che i soli due concetti comprensibili in queste tiritere sono «end, your end» («la fine, la tua fine») e «the problem is in fact… money, money, money» («il problema è di fatto il denaro, il denaro, il denaro»). Sul tema del denaro siamo già intervenuti, un cenno dunque al taglio profetico e apocalittico spesso presente in Battiato e Sgalambro (di cui riporto solo un titolo, La morte del sole, un libro del 1982, e un solo concetto, quello, fondativo, di «un’etica da disperati», commisurata cioè alla «fine del mondo») ma lo approfondiremo nell’Appendice conclusiva.
Ripetiamo ancora una volta che non è nostra ambizione definire cosa sia il Buddhismo (religione, filosofia, pratica di vita, ecc.) né i suoi principi dottrinali (tra i quali vi è, comunque e certamente, quello della vacuità, specie nella sua declinazione tibetana, particolarmente cara a Battiato), ma solo segnalare delle informazioni utili a una più completa comprensione delle posizioni di Battiato. Per un primo approfondimento, divulgativo ma coerente con il nostro intento, segnaliamo un’opera che si fregia di una preziosa introduzione di Battiato stesso, Catechismo buddhista, Bompiani, Milano, 2004 (ristampa della prima traduzione italiana del 1890).
A titolo meramente esemplificativo ricordo un passo di Petrarca, un poeta e un intellettuale ben presente a tutta la civiltà europea credo fino al diluvio contemporaneo: «Che quanto piace al mondo è breve sogno» (dal sonetto proemiale del Canzoniere: consiglio l’edizione commentata da Giacomo Leopardi, un poeta, come abbiamo visto nei nostri precedenti commenti, di assoluto rilievo per Battiato e Sgalambro, forse addirittura un loro punto di unità ideologica e artistica).
Sinteticamente e conclusivamente questa canzone è un passo verso la liberazione dalle angosce della nostra mente, un passo verso la grande pace, verso il vero Vuoto mistico e buddhistico. «È un campo difficilissimo da trasformare in parole. Quando tu non hai più pensieri, creando questo vuoto, trovi il pieno (ride)».
È da tutto questo dunque che viene il motivo della presenza di questa canzone in un disco non casualmente intitolato Il vuoto. Il significato ultimo e segreto è coerente con quello più immediato e palese, ovvero, per richiamare la famosa Tavola smeraldina che dice: «come in alto così in basso» e viceversa. E in coerenza: «D. T. Suzuki riferisce questo aneddoto: “un monaco chiese a Li-chan: ‘Se tutte le cose si riducono al vuoto, a che cosa corrisponde il vuoto?’ Li-chan rispose: ‘La lingua è troppo corta per spiegartelo’. ‘Perché troppo corta?’ ‘All’interno e all’esterno ha una sola, identica natura’ rispose il maestro”».
Ma il richiamo più evidente in Battiato è alle Upanishad come si vede nelle citazioni di seguito: «L’Assoluto non è soggetto ai tre tempi, passato, presente e futuro; e anzi non è soggetto ad alcun’altra possibile dimensione temporale. L’Assoluto si presenta sia in possesso di attributi sia senza di essi. Privo di sostanza propria, intimamente vacuo è l’Assoluto al principio, nel mezzo e alla fine. Quest’intero universo invero è l’Assoluto. L’Assoluto sta al di là dell’illusione cosmica, al di là delle qualità costituenti il principio oggettuale. Infinito, inconoscibile, intatto, perfetto è l’Assoluto. Senza secondo, somma beatitudine, puro, illuminato, sciolto, vero e reale, onnipervadente, indifferenziato, indiviso è l’Assoluto. L’Assoluto è essere, coscienza e beatitudine, luce di per sé splendente. L’Assoluto non è pascolo per la mente o la parola. Integro, l’Assoluto non dà luogo ai metodi logici di retta conoscenza. Incommensurabile, l’Assoluto si lascia conoscere solo mercé i principi che costituiscono il fine ultimo della scienza sacra. L’Assoluto è privo di distinzioni quanto a luogo, a tempo e sostanza. Interamente perfetto è l’Assoluto. Pari al quarto stato di coscienza, esente da mutamenti, unico è l’Assoluto. Non soggetto alla dualità, inesprimibile a parole è l’Assoluto»; «Il saggio assorbito nella contemplazione dell’Assoluto dovrebbe bandire l’erronea sovrapposizione che lo porta a identificare l’io e il mio con il corpo e con i sensi, che sono ben diversi dal Sé. Riconosciutosi nelle vesti del Sé individuale, testimone impassibile della mente e di tutte le sue funzioni, il devoto dovrebbe pensare io sono Quello, cessando di accarezzare l’idea che il Sé si trovi altrove (…) Dal manifestatore divino Brahma giù giù sino al filo d’erba tutte queste sovrapposizioni erronee non son che vacuità: e dunque si deve finalmente giungere a percepire il proprio Sé come compiuto ed esistente in forza di sé solo. Il Sé è Brahma, il Sé è Visnu, il Sé è Rudra, il Sé è Indra: tutto quest’universo è il Sé e non v’è nulla di altro del Sé»; «Come per errore si scambia una fune per un serpente, così colui la cui mente è obnubilata dall’ignoranza della verità percepisce il mondo come realtà. E come quando si riconosce nell’oggetto temuto null’altro che un pezzo di corda, l’idea illusoria del serpente cessa di sussistere, così quando si è giunti a conoscere il sostrato d’ogni cosa e perciò l’universo appare in tutta la sua vacuità, al devoto non rimane più alcun residuo di conseguenze di azioni trascorse da scontare, giacché pure il corpo non è che parte di quest’illusoria manifestazione del mondo».
Un’altra ipotesi di lettura, meramente suggestiva, è quella che lega il Vuoto alla fine dei tempi, all’Apocalisse, a un Big Bang infuocato, finale, rigenerativo, un tema ricorrente in Battiato e Sgalambro. Sgalambro scrive (con Battiato) in Gesualdo da Venosa (1995), sinteticamente e a compendio dei suoi scritti: «Io, contemporaneo della fine del mondo / non vedo il bagliore, / né il buio che segue, / né lo schianto, / né il piagnisteo / ma la verità / da miliardi di anni / farsi lampo». Per un primo, doveroso, approfondimento, e una ricostruzione analitica, rimandiamo al nostro commento della canzone, ma citiamo almeno un passo: «Ogni cosa sia commisurata alla fine del mondo, diceva. Chi arriva alla fine del mondo ha già abbastanza anni per tornare indietro portandola con sé. Ogni azione tragga da lì la sua misura. Da miliardi di anni del futuro proviene la legge, non dal cielo, non dalla terra. Da un bagliore immenso che dura solo un attimo e da lì procedendo verso di noi, proviene tutto o meglio l’obbligo di rappresentarcelo. È ciò che chiamiamo verità, ciò che chiamiamo bene. E poi si spegne».
Di seguito una rapida antologia:
«Lontano da queste tenebre matura l’avvenire» (Da Oriente a Occidente, 1972); «Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco» (L’era del cinghiale bianco, 1979); «finché non muore il giorno» (Frammenti, 1980, con una rilettura apocalittica del qoheletico Leopardi); «this is the end, my only friend» («questa è la fine, la mia sola amica», Bandiera bianca, 1981) con un richiamo all’omonima e celeberrima canzone dei Doors e a Apocalypse now di Francis Ford Coppola; «Clamori del mondo moribondo» (Clamori, 1982); «poi la fine un giorno arrivò per noi» (Zone depresse, 1983); «in esilio… lungo viaggio in cui ci si perde» (Via Lattea, 1985); «Vuoto di senso crolla l’Occidente» (Zai Saman, 1988); «Angeli caduti in terra dall’eterno… per secoli e secoli» (Le sacre sinfonie del tempo, 1991, con riferimento a Lucifero, al giorno del giudizio e ai romanzi gnostici); «in un giorno e una notte la distruzione avvenne» (Atlantide, 1993); «e senza tregua vedo buio intorno / voglio di nuovo gioia nel mio cuore» (Sui giardini della preesistenza, 1993); «la fine del mondo… the end of the world» (L’ombrello e la macchina da cucire, 1995, con riferimento a Eliot, Joyce, Morrison, Coppola: si veda il nostro commento); «È la stessa cosa che è viva e morta… queste cose, infatti, ricadono nel mutamento in quelle e quelle viceversa in queste» (Di passaggio, 1996); «il sorgere della Città di Dio» (È stato molto bello, 1998); «catastrofe psicocosmica» (Shakleton, 1998); «Un salto oltre ciò che abbassa / pinna in altro mare…» (Running against the grain, 2001); «ferito al mattino a sera offeso / salta su un cavallo alato / prima che l’incostanza offuschi lo splendore» (Le aquile non volano a stormi, 2004); «The game is over in the dark night» («Il gioco è finito nella notte scura», The game is over, 2007); «The world outside is insane, it’s full of evils. / Without wasting time, we take refuge / in the empty Essence» («Lo vedi il drammatico aumento di violenza? / Il mondo fuori è insano, è pieno di mali. / Senza perdere tempo, rifugiamoci nella vuota Essenza», Caliti junku, 2012).
Ma forse più di tutto un richiamo alla frase «e il giorno della fine non ti servirà l’inglese». Da ricordare per inciso la forte polemica di Battiato nei confronti dell’anglo-americano tecnocratico e plutocratico. E tutto questo è ancora un punto di unità artistico e ideologico tra Battiato e Sgalambro, cemento alla loro amicizia durante una vita.
Dunque l’ultima parola a Manlio Sgalambro che nella Consolazione, un suo libro del 1995, nell’incipit del capitolo significativamente intitolato “Il consolatore”, sulla scorta dello «Schopenhauer buddhista», tratteggia (anche) un ritratto di se stesso e di Franco Battiato: «Il consolatore passa con sconfinata amarezza tra i suoi sfortunati simili. Quello che il compassionevole gli lasciò in pegno ora si trasforma in parole. Queste egli può dare, queste egli dà. È andando sulle tracce del compassionevole che troviamo il consolatore, questa figura altamente contemporanea. L’ultimo genio di un’etica possibile nell’età in cui l’agire è divenuto impossibile. Il parlare edificante è l’ultima luce. La stessa compassione è ormai solo una pietosa carezza o un gesto appena abbozzato, gli occhi che delicatamente si posano su di te. Ma questo già trapassa nell’edificazione. Il cuore del compassionevole ora è vuoto».