Decline and fall of the Roman Empire
Decline and fall of the Roman Empire
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¶Vivo la fine dell’Impero Romano,
in un giardino di ciliegie
che sprizzano il loro succo
sulla mia faccia slavata.
¶Perfido Stilicone, barbaro multiforme,
i monaci cantano il Vespro nel tempio di Giove.
Llaf dna enilced
¶Dolce sole di Emesa, Eliogabalo imperatore
celebrava pietanze invece di battaglie,
confondeva l’ordine delle stagioni,
faceva ministri mimi e ballerini…
¶Bolide solare, vaga per i mari come putrida barca l’Impero.
Havel, Havelin: tutto è vanità,
come in un gioco di bambini.
¶Svicolo per viuzze piene di profumi e unguenti,
mentre leggo «L’anatomia dell’urina» di James Hart,
assieme al Vangelo secondo S. Matteo:
mi beo di sulfuree intese con pianeti e
in un istante attraverso l’orbita celeste.
Odo un canto all’orizzonte, m’assottiglio,
sono spirito puro, sono fiore, tigre, mi risveglio.
¶Muffe, odori eziologici per mondi alla fine
purificati da lirici antropoidi:
qui a tre passi la decadenza avanza.
¶Chiunque tu sia, ti prego, rispondi:
ci sono ancora altre aurore?
Dona, abbi pietà, abbi misura.
In questa canzone ritroviamo la consueta polemica apocalittica di Battiato e Sgalambro contro la degenerazione contemporanea in campo sociale, culturale e politico. E questo quindi il suo senso complessivo: «mondi alla fine».
A conferma di ciò le parole di Battiato riportate in un’intervista di Antonio Ranalli, le quali ci precisano che il senso di questa canzone è nel suo essere contro «l’attuale decadenza della società occidentale» (cfr. musicalnews.com, 3/11/2003). Va sottolineato però che nella canzone non vi è solo questo aspetto di denuncia ma anche, come di consueto nel duo, la proposta dei fondamenti di una nuova etica. Per l’esattezza, Sgalambro afferma, con una frase certo condivisa da Battiato, la necessità di «una teologia di grande stile, all’altezza della ‘decadenza’» e arrivando ad affermare che «al di là dell’etica sociale si profila l’etica cosmica, in cui si decide l’atteggiamento dell’individuo davanti all’universo… egli invoca la fine… alla luce di essa si collocano le sue azioni» (cfr. Trattato dell’empietà, p. 161 e La morte del sole, p. 148 e p. 207: «la speranza del filosofo d’oggi… una filosofia che possa valere per la fine del mondo»).
Su quali fondamenti però possiamo fondare questa nuova etica? La risposta è nei versi conclusivi della canzone «Dona, abbi pietà, abbi misura» nella consapevolezza che «tutto è vanità / come in un gioco di bambini». Dunque il senso ultimo della canzone è quello di un percorso iniziatico che porta dal caos esistenziale che contraddistingue l’età contemporanea fin dai suoi esordi (l’età contemporanea è figlia certo delle avanguardie storiche primo-novecentesche ma più ancora degli orrori della prima e della seconda guerra mondiale) alla pietà interreligiosa.
Si contrappongono così ai passi dove si parla della decadenza e della demenza contemporanea i versi nei quali, in modo criptico ma complessivamente comprensibile, si allude alla possibilità che esistano «nuove aurore».
Naturalmente questo dipende unicamente dalla nostra capacità di costruire oggi una nuova etica (Sgalambro parla di un’«etica per disperati» consapevoli di essere «contemporanei della fine del mondo» e della «catastrofe») fondata sulla generosità, sul senso della misura e della giustizia, sulla pietà interreligiosa e interraziale. Nella consapevolezza, come afferma Petrarca che «quanto piace al mondo è breve sogno» e che «veramente noi siamo polvere e ombra», ovvero che tutto al mondo è, come si dice al centro della canzone, solo «vanità delle vanità».
Il tutto in coerenza cioè al «credimi siamo niente» che è ribadito dal ritornello di Fisiognomica (1988) e dove troviamo anche il fulcro di ogni riflessione etica: «difficile capire ciò che è giusto». Per Sgalambro si veda invece questa ricorrente frase-concetto: «tutte le cose si devono intendere a partire dalla fine del mondo».
Dato ciò, dobbiamo ora rilevare che un testo decisivo per la canzone è, ancora una volta, La terra desolata di Eliot. In particolare nella parte conclusiva, recita, esattamente come la canzone, «dona, abbi pietà, abbi misura», ovvero parole che richiamano, a loro volta, passando per Schopenhauer, le Upanishad induiste, dove si trova in prima battuta la locuzione: «Dona. Abbi pietà. Abbi misura.». Ma si presti attenzione a tutto il passo di Eliot: «‘Poi s’ascose nel foco che gli affina’ (…) Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine / (…) Datta. Dayadhvam. Damyata. / Shantih shantih shantih» che in traduzione è, appunto, «Dona. Abbi pietà. Abbi misura» e «Pace Pace Pace» o, come traduce Eliot nelle note poste in calce al poemetto, «Pace che sorpassa ogni comprensione», in analogia ai versi della canzone.
Da notare in questo senso che il passo di Eliot richiama, oltre le Upanishad induiste, anche il canto XXVI del Purgatorio di Dante e il suo viaggio iniziatico dal peccato alla salvezza.
Ora, più in generale, possiamo ricordare che La terra desolata è presente fin dal primo disco di Battiato e Sgalambro: si veda, ad esempio, Un vecchio cameriere, ed è uno dei loro punti di riferimento comuni in tutta la loro collaborazione. Non solo, ma va anche ribadito che il tema della decadenza e di una possibile, ma improbabile, rinascita, è uno dei temi portanti di tutto il poemetto La terra desolata e uno dei motivi dell’attenzione da parte del duo verso questo testo.
Fermo questo va anche subito rilevato quale sia la principale fonte storica di riferimento: «‘Ci vuole molto tempo perché un mondo perisca’ dice Gibbon… questo leggo con rispetto in Decline and Fall of the Roman Empire». Ma si veda anche Anatol (p. 151): «No, non il gentiluomo colto e illuminato che legge Decline and Fall… ma un’accozzaglia di banditi… l’Occidente guarda da vicino la fine del mondo».
Da notare in primo luogo che Edward Gibbon (1737-1794) nella sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romano del 1776-88, cui rimanda esplicitamente il titolo della canzone, sostiene che il cristianesimo sarebbe stato il principale elemento disgregativo della struttura imperiale romana; poi che il regno di Eliogabalo (218-222) avrebbe avuto sostanzialmente le caratteristiche di un «dispotismo orientale», diverso e avverso alle cosiddette «virtù romane tradizionali». Eliogabalo, in effetti, apparteneva, per parte di madre, alla famiglia dei sacerdoti del dio Elagabal di Emesa e come imperatore cercò di imporre il suo dio come suprema divinità dell’impero con il titolo di «deus invictus Sol Elagabalus», sostituendolo a Giove, signore del pantheon romano e sovvertendo le tradizioni religiose romane. Va inoltre osservato che le feste di questo dio solare cadevano, non casualmente, intorno al 21 dicembre e costituiscono, pertanto, un «antenato diretto» del Natale cristiano…
La politica religiosa e i suoi eccessi sessuali (ebbe cinque mogli e due «mariti») gli causarono, sostiene ancora Gibbon, una crescente opposizione del popolo e del Senato romano che culminò col suo assassinio per mano dalla guardia pretoriana e l’insediamento del cugino Alessandro Severo. Eliogabalo fu inoltre colpito dalla damnatio memoriae. Il suo governo gli guadagnò tra i contemporanei una fama di eccentricità, decadenza e fanatismo, probabilmente esagerata dai suoi successori: questa fama si tramandò anche grazie ai primi storici cristiani, che ne fecero un ritratto ostile.
Invece il giovane imperatore siriano venne rivalutato, con gusto del paradosso, dalle avanguardie che agirono tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Battiato e Sgalambro potrebbero quindi aver conosciuto, oltre alle pagine di Gibbon dedicate a Eliogabalo, anche Eliogabalo o l’anarchico incoronato di Antonin Artaud, tradotto da Adelphi nel 1991, o l’ultimo scampolo di questa antitradizione, ovvero l’opera rock L’Eliogabalo del 1977 di Emilio Locurcio, e il relativo album a cui parteciparono Lucio Dalla, Claudio Lolli, Rosalino Cellamare e Teresa De Sio.
A proposito di Stilicone, «barbaro multiforme», l’altra grande personalità storica menzionata nella canzone, riportiamo un passo da Stilicone e la crisi dell’occidente: 398-408 d.C. di Francesco Lamendola:
Il generale vandalo Stilicone difese con valore l’Impero dalle numerose invasioni barbariche ma significò anche il fallimento della politica dell’assimilazione dell’elemento germanico entro la società romana e provocò, nel 410, il sacco di Roma da parte di Alarico.
Tornando ora alla presenza e all’importanza del testo evangelico, vanno ricordati altri passi di Sgalambro (cfr. La consolazione, p. 143 e Anatol, pp. 50-51).
Innanzitutto, va osservato che il Vangelo viene richiamato come uno dei testi religiosi e di sapienza umana che possono essere di guida in questo momento di incertezza storica ed esistenziale. In particolare si afferma: «Leggeva The Anatomy of Urines di James Hart insieme al Vangelo secondo San Matteo… combinava la patologia degli umori con l’esperienza teologica».
E qui il nesso è tra il termine «patologia» e la frase cardine, ricordata da Sgalambro, in chiave apocalittica del Vangelo secondo Matteo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo».
Passando ora dal Vangelo alla Bibbia, per comprendere «Havel, Havelin: tutto è vanità» è evidente poi il richiamo, in parte già segnalato, al libro biblico del Qohelet, per certo uno dei testi di riferimento per Schopenhauer, maestro di Sgalambro, e per Sgalambro stesso, prima e durante l’epoca Battiato. Scrive ad esempio Sgalambro, con il consueto taglio interreligioso e interculturale, che si muove dall’India al Mediterraneo, dall’Inghilterra alla Germania: «In certi vecchi testi vedici o nel Qohelet o in pensatori come Hobbes e Schopenhauer… si sente che in essi è stato detto tutto»: «verità è comando».
Inoltre il richiamo a «tutto è vanità» è particolarmente significativo perché rimanda, inoltre, a Giacomo Leopardi, un autore, a sua volta, di assoluta importanza sia per Sgalambro che per Battiato: si ricordino, ad esempio, tanto le sue Operette morali quanto l’ultimo verso di A se stesso del 1835 dove è scritto: «e l’infinita vanità del tutto» da cui Sgalambro: «il senso delle cose è polvere, quello dell’uomo vermi» (Marcisce anche il pensiero, p. 89).
Da notare ancora, a conferma di questa vasta e articolata filiera, che il «tutto è vanità» lo riconosciamo ancora, appena un po’ «camuffato», in una canzone successiva del duo, Io chi sono? (2007), dove compare con una piccola variazione fonica: «Tutto è illusorio privo di sostanza / Tutto è vacuità».
Necessario ora richiamare, per una più articolata comprensione della canzone, prima la celeberrima opera di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente del 1922, spesso citata da Sgalambro e poi un altrettanto celeberrimo sonetto, intitolato Languore, tratto dalla raccolta Allora e ora (1884), di Paul Verlaine, l’amico e compagno di Baudelaire:
Sono l’impero alla fine della Decadenza / che guarda passare i grandi Barbari bianchi /componendo acrostici indolenti dove danza / il languore del sole in uno stile d’oro. / Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore. / Laggiù, si dice, infuriano battaglie cruente / (…) Ah tutto è bevuto! Non ridi più Batillo? / Tutto è bevuto… Niente più da dire! / Solo un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme, / solo uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica, / solo un tedio d’un non so che attaccato all’anima!
I cenni all’opera di Sgalambro vanno però ulteriormente approfonditi.
In particolare il richiamo ad Anatol perché precipita da qui nella canzone, oltre ai passi finora segnalati, anche quello forse più enigmatico. Il verso «Svicolo per viuzze piene di profumi e unguenti» rimanda, infatti, a un altro passo di Sgalambro (Marcisce anche il pensiero, pp. 7-8):
Il meticcio che svicola… per sordide viuzze di Alessandria, tra grida che esaltano profumi e fetidi unguenti… gode del rispetto di Anatol… Dunque anche presso i barbari il tymos cede alla saggezza, aveva osservato pensoso… Disordine e dolore di un mondo perduto, dice Anatol.
Ma non è tutto perché vi è una poesia di Sgalambro dalla quale in gran parte la canzone in questione deriva.
Io vivo alla fine dell’Impero Romano, / in un giardino di ciliegie / che sprizzano il loro succo sulla mia faccia slavata. / Perfido Stilicone barbaro multiforme, / i monaci cantano il Vespro nel tempio di Giove. / Intonano i cori ‘The Decline and fall’ / Dolce Sole di Emesa, Eliogabalo / a quattordici anni Imperatore di Roma / come ti invidio e ti onoro. / Celebravi pietanze invece di battaglie, per questo ti aborriscono gli storici. / Confondevi l’ordine dei climi / e facevi ministri mimi e ballerini. / Onoro imperatori neghittosi e feroci. / Che importa la nobile indole di Tito / se con Commodo regna ovunque la pace? / Vaga per i mari come putrida barca / l’Impero, e io mi diletto a un verso di Nerone. / Svicolo per viuzze, zaffate di profumi e fetidi unguenti, / mentre leggo L’anatomia dell’urina di James Hart, / assieme al ‘Vangelo secondo San Matteo’. Un ‘Catalepton liber’ occidentale e la ‘Dialectica’ di Garlando Computista. / Mi beo di sulfuree intese con pianeti, / e in un istante attraverso l’orbita dei cieli. / Odo un canto di Saffo all’orizzonte. / Che gioia, ricomincio, ritorno, mi assottiglio. / Sono spirito puro. Tigre mi risveglio. / Muffe, odori eziologici purificati da lirici antropoidi e violini tzigani. / A tre passi la demenza avanza.
Un’ultima suggestione. Non è questo l’unico riferimento alla Decadenza di Roma, il riferimento era infatti già apparso nei versi della canzone È stato molto bello, in Gommalacca (1998):
I colli dei cigni splendono alla luce / e mille barbagli trafiggono le palpebre / il fuoco che bruciò Roma è solo sprazzo. / Così mi incendi. / Con bugie di suoni mi possiedi. / È stato molto bello finisce la tarda estate. / È stato molto bello si prolungano le ombre oltre la sera. / Non domandarmi dove porta la strada, seguila e cammina soltanto. / Io non invecchio, niente più mi imprigiona.
Pertanto, se la canzone descrive il declino e la caduta dell’Impero, in un passato che è oggi («mondi alla fine… la decadenza avanza», l’impero è, come appena detto, «una barca putrida» che «vaga per i mari»; nella poesia di Sgalambro, significativo il fatto che al posto di «decadenza» vi sia la parola «demenza»), non stupisce che in questo contesto rimbalzino domande senza risposte e interlocutori certi: «chiunque tu sia, ti prego, rispondi. Ci sono ancora altre aurore?».
Molto importante allora la clausola finale perché ci dice che l’unica risposta possibile è la volontà di essere, eticamente, una risposta: «Dona, abbi pietà, abbi misura». Significativo anche il fatto che questa clausola, e il suo senso di scelta etica, si ritrovino in una poesia di Sgalambro, in Nietzsche, a pagina 62, che così si conclude: «Decreta la mia legge: dona, abbi pietà, abbi misura».
Non solo ma va rilevato che questa frase si esplica con un altro passo nel quale, in coerenza a questi tre precetti, Sgalambro ricorda quali sono «gli attributi di Dio: Bontà, Amore, Sapienza…».
Dunque, estremamente significativo l’intero passo conclusivo delle Upanishad che aggiunge:
questi sono i tre precetti che bisogna insegnare: il dominio di sé, l’elemosina e la carità, la compassione.
Non meno importante il fatto che in Eliot (Gerontion, 1920) troviamo «nell’adolescenza dell’anno / venne Cristo la tigre» che potrebbe giustificare l’apparizione nella nostra canzone della tigre come «spirito puro»; ma «l’orbita celeste» rinvia invece, a ribadire il taglio sincretico complessivo proposto, a «io Timeo… per incarico di Platone percorsi l’orbita celeste e dopo lungo errare pervenni a una specie di Dio».
E dell’apparizione di una «specie di Dio», della sua Epifania e del suo messaggio, forse parlano davvero Battiato e Sgalambro in questa canzone. Davvero allora «ci sono ancora altre aurore: dona, abbi pietà, abbi misura.»
Dichiarazioni
Una ‘diossina intellettuale’ sta decretando il ‘Declino e la Caduta dell’Impero dell’Essere Umano’… Dal mio osservatorio sto segnalando, in tutti i mezzi, la mia posizione; lanciando segnali d’allarme e qualche antivirus… e se non avessi qualche speranza, lascerei perdere.
[IN FONDO SONO CONTENTO DI AVER FATTO LA MIA CONOSCENZA, BOMPIANI, MILANO, 2007, P. 85]