Amata solitudine
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¶A quel tempo tu stavi, sicura di te, della tua logica,
guidando e parlando ininterrottamente…
ed io, che già non ti ascoltavo più, (come ipnotizzato),
seguivo gli occhi che seguivano i colori,
i raggi elettrici della città.
¶Chissà cos’è quel moto che ci unisce e ci divide,
e quel parlare inutilmente delle nostre incomprensioni,
di certi passeggeri malumori.
¶Amata solitudine,
isola benedetta.
¶A quel tempo di te, amavo il tuo pensiero logico
e quella linea perfetta del baciare,
la simmetria delle tue carezze;
vivificato dal chiarore vibrante di sapore:
scintilla di una mente universale.
¶Ero in te come un argomento del tuo amore sillogistico,
conclusione di un ragionamento.
Ma mi piaceva essere così,
avviluppato dai tuoi sensi artificiali.
Ora sono come fluttuante…
¶Amata solitudine,
isola benedetta.
¶Così è finita, mi stacco da te, da solo continuo il viaggio.
Rivedo daccapo il cielo colorato di sole, di nuovo vivo.
Probabilmente questa canzone deriva da una serie di riflessioni, o passi, tratti da diverse opere di Sgalambro che in qualche modo ne sono la premessa. Si potrebbe, però, anche cercare interviste (e canzoni) in cui Battiato esprime concetti analoghi:
«forse all’inizio della mia carriera… le mie canzoni avevano qualche coinvolgimento romantico. Mai sentimentale però. L’amore, l’innamoramento e quel che ne deriva sono state cosa facile per me da superare. Puoi amare una persona senza quel tipo di coinvolgimento, diventa tutto magnifico, non hai più contraddizioni. Si può ammazzare un altro perché non ti vuole più? Spengo la tv quando raccontano queste storie di stalking, di delitti passionali: quando l’amore perpetua il trauma diventa il regno degli equivoci. Sono possibili altri tipi d’amore»;
oppure:
«La socialità spesso viene scambiata per divertimento, invece può essere sofferenza pura. La solitudine viene interpretata come sofferenza, invece a volte può essere gioia. Stare con se stessi, studiare, l’ho sempre visto come un fatto estremamente positivo, non come prigione. Mi sembra una prigione quello che molti altri considerano libertà. Stare in mezzo alla gente ammucchiata in qualche ritrovo è assolutamente mortale!»
Ma forse è meglio ricordare una canzone dove si mostrano anche le fatiche della solitudine:
«Passano gli anni / e il tempo delle ragioni / se ne sta andando / per scoprire che non sono / ancora maturo / nel Secondo Imbrunire. / E il cuore / quando si fa sera / muore d’amore / non si vuol convincere / che è bello / vivere da soli»
Tornando ora a Sgalambro troviamo più precisamente:
«Mentre leggo Justine di Lawrence Durrell (romanzo ispirato da due grandi Muse, Kavafis e Alessandria d’Egitto) mi imbatto in questo brano: Il nostro amore… era come un sillogismo manchevole delle sue vere premesse… Era una specie di possesso mentale»
«La sua fedeltà è un convincimento, ha la struttura di un sillogismo, non di una passione».
Poi Sgalambro in Il trattato dell’empietà, come epigrafe a un paragrafo dove si ricorda che Kant definisce il sillogismo «il supremo concetto della ragione», ricorda un passo di Henry James dal romanzo The Sacred Fount:
«It was exactly as if she had been there by the operation of my intelligence».
Il protagonista della scena si pone come attento osservatore della relazione esistente tra un soggetto maschile e uno femminile. La sua è un’osservazione scientifica, durante la quale il soggetto riceve dall’esterno le informazioni e forma la sua percezione, da cui egli trae fondate ipotesi, per giungere a delle conclusioni, che costituiscono il suo successo.
La sua è un’osservazione che, come un sillogismo, parte da delle premesse, le sensazioni, per giungere ad una conclusione.
Il narratore partecipa anche emotivamente a questa titanica impresa, e quello che prova quando si trova davanti una donna è la convinzione che lei sia lì per opera della sua speculazione, «operation of my intelligence», ma per opera anche del suo proprio sentimento, («or even by that—in a still happier way—of my feeling», «o persino, in un modo ancora più felice, per opera del mio sentimento»), che cerca poi di descrivere, come tenerezza.
Allo stesso modo in cui, con gran compiacimento di sé e della propria intelligenza, ha osservato e capito lo sviluppo della relazione tra i due, vede stabilita («established») una relazione tra lui stesso e la donna che si è trovato davanti.
Gli fa molto piacere ciò e anche il fatto che i due abbiano scoperto l’amore e che quindi la sua
«demonstration» sia «complete», il come volevasi dimostrare che ci rallegra matematicamente parlando.
Ed ecco, ancora una volta, la compenetrazione di emozione e sillogismo… proprio come se l’amore fosse accompagnato naturalmente dalla ragione.
Ancora come epigrafe viene ricordata la massima 47 della Disputatio contra scholasticam theologiam di Lutero:
«Nulla forma syllogistica tenet in terminis divinis»
Le massime direttamente seguenti e conseguenti sono:
48. Non tamen ideo sequitur, veritatem articuli trinitatis repugnare formis syllogisticis. -Tuttavia non ne consegue che la verità della dottrina della Trinità contraddica la forma sillogistica.
49. Si forma syllogistica tenet in divinis, articulus trinitatis erit scitus et non creditus. –
Se una forma sillogistica si applica a questioni divine, la dottrina della Trinità è dimostrabile e non oggetto di fede.
In Hegel il movimento triadico di tesi-antitesi-sintesi corrisponde al passaggio tripartito universalità-particolarità-individualità. La sintesi è la riproposizione della tesi attraverso l’antitesi, ossia per conclusione l’individualizzazione dell’universale attraverso il particolare. Il procedimento utilizzato è come un sillogismo, in quanto parte da una premessa maggiore in prima istanza, prosegue con una premessa minore e si chiude con la conclusione direttamente conseguente alle due premesse.
Il sillogismo presuppone dunque un rapporto, e per Hegel tutto è un sillogismo perché tutto è dialettico.
Ma c’è di più. Lutero avrebbe sicuramente aborrito la filosofia hegeliana che sistematizzava tutto razionalisticamente; nella massima 49 afferma che se la forma sillogistica si applica alle questioni divine, la dottrina della Trinità è dimostrabile, e non oggetto di fede.
Le «Rebus divinis» sarebbero i dogmi cristiani intesi come sillogismo, dunque come dialettica triadica.
Questo spiega perché Lutero si opponeva ai dialettici, che avrebbero invece lodato Hegel.
Il testo di Amata solitudine, allo stesso modo, contrappone la genuinità della solitudine e della realtà all’apparenza/inautenticità della «compagnia», ossia del rapporto con l’altro, fonte di inutili sovrastrutture che minano il rapporto stesso. Come vedremo, questo concetto ritorna in Sgalambro.
Bisogna cogliere l’aspetto autentico e la genuinità di quando si fanno le cose «da soli».
Questa dinamica vale per tutti i tipi d’amore.
Dedicatario di Amata solitudine è un altro da sé che entra in rapporto con il sé, un qualsiasi referente esterno.
Alla luce di tutto ciò, pare evidente come non sia possibile attuare il sillogismo in alcuna forma d’amore (tantomeno quella divina), in quanto verrebbe meno l’alea di indeterminatezza ed autenticità individualizzante del rapporto stesso.
Probabilmente è questo il passo ideologicamente decisivo (e difatti il senso complessivo della canzone è ben comprensibile):
«Quindi il problema dell’apparenza non è che il problema dell’altro? gli chiedemmo. Sì, appena due si uniscono ha inizio l’apparenza, rispose. Dove già due si uniscono, capisci? Dovunque c’è un rapporto c’è velo. Coraggio, rimani uno. Santifica la purezza beata di chi accoglie in solitudine, essenze. Stira le tue membra, accovacciati all’ombra di te stesso… (L’altro? non pronunciare più, ti prego, questa parola)»
Oppure e conclusivamente, con un piccolo passaggio a un diverso rapporto di coppia e con l’esclusione dal diretto riferimento ad Hegel e alla sua «lotta per il riconoscimento»:
«Guardo due che si azzuffano per strada. I corpi si mescolano come se stessero eseguendo un complicato calcolo o tracciassero i contorni di un’opera d’arte. Ogni mossa è un atto geometrico. Non scorgo istinto. Che sia dunque la famigerata ferocia a farsi viva, mi sembra del tutto incredibile. Il furore che stravolge e simili: chi parla così, non ha capito nulla. È la ragione invece che si mostra così com’è. Ogni litigio è un sillogismo. Hegel, credo, approverebbe».
Qui di seguito le parti in lingua originale e le traduzioni in italiano da cui è tratto il riassunto, sviluppato sopra, di The Sacred Fount di Henry James:
Ecco un altro esempio di descrizione nello stile di James molto diretto ma raffinato
The mere mechanism of her expression, the dangling paper lantern itself, was now all that was left in her face. –
Il semplice meccanismo della sua espressione, la stessa lanterna di carta pendente, era tutto ciò che era rimasto sul suo viso.
diceva che era in compagnia. Non era quindi mai da solo, né infine, era mai in compagnia. Per così dire si considerava completo. E questo gli bastava per esserlo” (Della misantropia, p. 22); “Quindi il problema dell’Apparenza non che il problema dell’altro? gli chiedemmo. Sì, appena due si uniscono ha inizio l’apparenza, rispose. Dove due già si uniscono, capisci? Dovunque c’è rapporto, c’è velo. Coraggio, rimani uno. Santifica la purezza beata di chi accoglie, in solitudine… accovacciati all’ombra di te stesso, leone”
(Anatol, p. 83); “Non amerò mai più, gridavo…” (Del delitto, p. 122); ecc.
diceva che era in compagnia. Non era quindi mai da solo, né infine, era mai in compagnia. Per così dire si considerava completo. E questo gli bastava per esserlo” (Della misantropia, p. 22); “Quindi il problema dell’Apparenza non che il problema dell’altro? gli chiedemmo. Sì, appena due si uniscono ha inizio l’apparenza, rispose. Dove due già si uniscono, capisci? Dovunque c’è rapporto, c’è velo. Coraggio, rimani uno. Santifica la purezza beata di chi accoglie, in solitudine… accovacciati all’ombra di te stesso, leone” (Anatol, p. 83); “Non amerò mai più, gridavo…” (Del delitto, p. 122); ecc.
sono? Dialoghi sulla musica e sullo spirito di Franco Battiato e Daniele Bossari, Mondadori, Milano, 2009
teologico, p. 38;
Del delitto, p. 63
Probabilmente questa canzone deriva da una serie di riflessioni, o passi, tratti da diverse opere di Sgalambro che in qualche modo ne sono la premessa. Si potrebbe, però, anche cercare interviste (e canzoni) in cui Battiato esprime concetti analoghi:
«forse all’inizio della mia carriera… le mie canzoni avevano qualche coinvolgimento romantico. Mai sentimentale però. L’amore, l’innamoramento e quel che ne deriva sono state cosa facile per me da superare. Puoi amare una persona senza quel tipo di coinvolgimento, diventa tutto magnifico, non hai più contraddizioni. Si può ammazzare un altro perché non ti vuole più? Spengo la tv quando raccontano queste storie di stalking, di delitti passionali: quando l’amore perpetua il trauma diventa il regno degli equivoci. Sono possibili altri tipi d’amore»;
[…]
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I have spoken of my sharpened perception that something altogether out of the common had happened, independently, to each, and I could now certainly flatter myself that I hadn’t missed a feature of the road I had thus been beguiled to travel. It was a road that had carried me far.
It appeared then that the more things I fitted together the larger sense, every way, they made -a remark in which I found an extraordinary elation. It justified my indiscreet curiosity; it crowned my underhand process with beauty. The beauty perhaps was only for me -the beauty of having been right; it made at all events an element in which, while the long day softly dropped, I wandered and drifted and securely floated. This element bore me bravely up, and my private triumph struck me as all one with the charm of the moment and of the place.
I had positively encountered nothing to compare with this since the days of fairy-tales and of the childish imagination of the impossible. Then I used to circle round enchanted castles, for then I moved in a world in which the strange «came true». It was the coming true that was the proof of the enchantment, which, moreover, was naturally never so great as when such coming was, to such a degree and by the most romantic stroke of all, the fruit of one’s own wizardry. I was positively -so had the wheel revolved- proud of my work. I had thought it all out, and to have thought it was, wonderfully, to have brought it. Yet I recall how I even then knew on the spot that there was something supreme I should have failed to bring unless I had happened suddenly to become aware of the very presence of the haunting principle, as it were, of my thought. This was the light in which Mrs. Server, walking alone now, apparently, in the grey wood and pausing at sight of me, showed herself in her clear dress at the end of a vista. It was exactly as if she had been there by the operation of my intelligence, or even by that -in a still happier way- of my feeling. My excitement, as I have called it, on seeing her, was assuredly emotion. Yet what was this feeling, really? -of which, I at the point we had thus reached, seemed to myself to have gathered from all things an invitation to render some account.
I knew within the minute that I was moved by it as by an extraordinary tenderness.
Oh, it was quite sufficiently the castle of enchantment, and when I noticed four old stone seats, massive and mossy and symmetrically placed, I recognised not only the influence, in my adventure, of the grand style, but the familiar identity of this consecrated nook, which was so much of the type of all the bemused and remembered. We were in a beautiful old picture, we were in a beautiful old tale.
My demonstration was complete from the moment I thus had them in the act of seeking each other, and I was so pleased at having gathered them in that I cared little what else they had missed.
Ho parlato della mia acuta percezione che fosse successo qualcosa del tutto fuori dal comune, indipendentemente, a ciascuno, e ora potevo con certezza essere lusingato del fatto che non mi ero perso nemmeno un elemento della strada che ero così stato incantato a percorrere. Era una strada che mi aveva portato lontano.
Era dunque chiaro che più cose mettevo insieme, più senso avevano esse, comunque- osservazione di cui mi rallegrai straordinariamente. Giustificava la mia curiosità indiscreta; coronava con bellezza la mia subdola operazione. La bellezza forse era solo, per me, la bellezza di aver avuto ragione; costituiva in ogni caso un elemento in cui, mentre il lungo giorno declinava delicatamente, io vagavo e giravo e svolazzavo al sicuro. Questo elemento mi tirava su con coraggio, e il mio trionfo privato mi colpì come tutt’uno con il fascino del momento e del posto.
Certamente non mi ero imbattuto in nulla paragonabile a ciò dai giorni delle favole e della puerile immaginazione dell’impossibile. Ai tempi, ero solito girare intorno a castelli incantati, poiché allora mi muovevo in un mondo in cui lo strano «diventava vero». Era l’avverarsi che era la prova dell’incanto, che, per di più, naturalmente non era mai tanto grande quanto quando tale venuta era, in un tale grado e con la più romantica carezza di tutte, il frutto della magia di una persona. Ero certamente -così aveva girato la ruota- fiero del mio lavoro. Avevo pensato bene a tutto, e averci pensato bene coincideva, meravigliosamente, con l’averlo fatto. Tuttavia ricordo come anche allora io sapessi sul momento che c’era qualcosa di estremamente importante che avrei fallito a fare, a meno di non diventare tutt’a un tratto conscio della presenza del principio, per così dire, ossessivo del mio pensiero. Questa era la luce in cui Mrs. Server, che ora camminava sola, apparentemente, nel bosco grigio e fermatasi non appena mi vide, si mostrò nel suo vestito chiaro sulla linea dell’orizzonte. Era esattamente come se fosse stata lì per opera della mia intelligenza, o persino, in un modo ancora più felice, per opera del mio sentimento. La mia eccitazione, come l’ho chiamata, nel vederla, era senz’alcun dubbio emozione. Tuttavia cosa era realmente questo sentimento? -al momento a cui eravamo così giunti, mi sembrava di aver raccolto io stesso da ogni cosa un invito a rendere conto di ciò in qualche modo.
Seppi in quello stesso minuto che ero stato mosso da essa come da una straordinaria tenerezza.
Oh, era a sufficienza il castello dell’incanto, e quando notai quattro antiche panche di pietra, massicce e muschiose e poste simmetricamente, riconobbi non solo l’influsso, nella mia avventura, del grande stile, ma anche la identità familiare di questo angolo consacrato, che somigliava tanto a tutto lo sconcertato e ricordato. Eravamo in un bel vecchio ritratto, eravamo in un bel vecchio racconto.
La mia dimostrazione fu completa dal momento in cui io li avevo colti nell’atto di cercarsi l’uno l’altro, ed ero così compiaciuto di averli riuniti che poco mi importava cos’altro avessero perduto.
Ecco un altro esempio di descrizione nello stile di James molto diretto ma raffinato:
The mere mechanism of her expression, the dangling paper lantern itself, was now all that was left in her face.